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05 Aug, 21

Trent’anni fa la Vlora a Bari. L’intervista di Repubblica a Gianni Di Cagno

Su Repubblica Bari di ieri, 4 agosto 2021, l’intervista al nostro Gianni Di Cagno nel trentennale dall’arrivo della nave Vlora nel porto di Bari, con a bordo oltre ventimila albanesi in fuga dal loro Paese.

Rep Bari 04082021_intervista Gianni Di Cagno

Di seguito l’intervista per esteso

“Di notte ci diedero i loro bambini e si fidarono di Bari” di Gianfranco Moscatelli

In quei giorni, quando la Vlora arrivò a Bari, fu in prima linea a contatto con la disperazione e la speranza. Ma
anche alle prese con le mai condivise decisioni del Governo. Gianni Di Cagno, all’epoca capogruppo Pci-Pds,
era il capo dell’opposizione ma il sindaco Enrico Dalfino lo volle accanto a sé per gestire un’emergenza epocale. “E così — racconta l’avvocato passato anche per il Csm ma che ormai non fa più politica attiva — quel dramma lo
vivemmo insieme: Enrico, Vito Leccese (all’epoca assessore dei Verdi e oggi capo di gabinetto del sindaco
Decaro) e io. Giorno e notte, avanti e indietro fra il porto e lo stadio della Vittoria. Con un caldo che non
lasciava scampo”.
Quella mattina che cosa stava facendo?
“Ero in tribunale e intorno alle 9 durante la mia prima udienza arrivò un vigile urbano che, interruppe il processo, e comunicò al giudice che il sindaco mi voleva immediatamente al porto. Non mi disse il motivo”.
E invece quando arrivò cosa vide?
“Quando varcai cancellata del porto vidi la nave stracarica di persone. Una scena dantesca, la Vlora brulicante di persone: 20-30 mila. Il numero esatto non si è mai saputo”.
Aveva già attraccato?
“No, stava ancora bordeggiando, intorno c’erano tre o quattro rimorchiatori e la cosa che ricordo nitidamente sono le centinaia di persone che si buttavano in acqua a corpo morto dal bordo della nave. Una scena simile l’ho rivista nelle terribili immagini dell’11 settembre. Nelle foto della Vlora si vedono in tanti che nuotano verso la banchina, ma ci fu anche chi nuotò in altra direzione per fuggire subito via”.
Ma perché Dalfino la chiamò al porto?
“Di fronte a una situazione gravissima il sindaco ritenne di coinvolgere il capo dell’opposizione per valutare insieme le scelte e condividerle”.
Una scelta politica, quindi.
“Sì, certo. Ma con Enrico Dalfino avevo un rapporto particolare a prescindere dal ruolo che ricoprivamo”.
E quali furono le prime decisioni che prendeste?
“In realtà capimmo che non saremmo mai riusciti a gestire una situazione così: erano troppi e per noi sarebbe stato impossibile aiutarli tutti. All’epoca non c’era una protezione civile attrezzata. Bloccammo la banchina per motivi di
ordine pubblico, ma ci rendemmo conto che l’area era già satura e a bordo c’erano ancora migliaia di persone. Da qui la decisione di trasferire i migranti nello stadio della Vittoria, l’unico luogo in cui si potevano fare entrare tante persone”.
Ma poi lo stadio divenne un lager.
“Nessuno aveva intenzione di chiudere i cancelli. Le cose poi presero una piega diversa. Quando dopo alcune ore ci furono i primi trasferimenti allo stadio la prefettura allestì alcuni punti di ristoro all’esterno, ma quei poveretti avevano fame e sete ed erano stanchissimi e per la distribuzione non c’era personale a sufficienza. Inevitabilmente scoccò la scintilla che scatenò una rissa gigantesca, proprio sotto i nostri occhi. E a quel
punto chi era al comando decise di far rientrare tutti e di chiudere momentaneamente i cancelli. Ma questa non fu presa come decisione definitiva. Fu dopo che arrivò l’ordine del ministro dell’Interno Vincenzo Scotti di chiudere tutto”.
Perché?
“Perché la convinzione era che se l’Italia avesse trattato male gli albanesi questi non sarebbero più venuti perché non eravamo in condizioni di accoglierli. E su questo che si creò il corto circuito fra Bari e il Governo. Anche noi eravamo convinti di non poter far rimanere tutti qui, ma proprio perché li avremmo riaccompagnati a casa li avremmo dovuti trattare bene, rispettando la dignità di uomini e donne e dei loro bambini. E c’è un documento al Comune del 13 agosto in cui è spiegata benissimo la nostra posizione e la nostra presa di distanza da questo comportamento. Perché le immagini che si videro nei tg e sui giornali di tutto il mondo non corrispondevano allo sforzo del Comune, con i suoi amministratori e i suoi uomini, dei medici e dei volontari che si impegnarono per curare al meglio ognuno dei
migranti”.
Ricorda persone o episodi legati a quei giorni?
“Ricordo un giovane ingegnere che nel porto, dove la situazione era ben più drammatica che allo stadio, ci aiutava nelle traduzioni. Rimase con noi fino all’ultimo e siccome ci sembrava un bravo ragazzo, con Dalfino gli regalammo un po’ di soldi e gli dicemmo di andare via altrimenti lo avrebbero rimandato in Albania. Non l’ho più sentito. Ma c’è una cosa che non potrò mai dimenticare”.
Racconti.
“Quando entrammo nello stadio prima della chiusura ci rendemmo conto che in mezzo a quelle migliaia di persone costrette in una situazione estrema, c’erano tantissimi bambini. Con Dalfino eravamo riusciti a ottenere alcuni tendoni della Croce rossa che furono sistemati nel piazzale davanti al Villaggio Trieste dove ora c’è il parcheggio e decidemmo di chiedere agli albanesi di fare uscire i bambini almeno per la notte in modo da dormire in condizioni dignitose. Al sindaco fu impedito di entrare e allora entrai io accompagnato da due vigili urbani e da una interprete che con il megafono spiegava come all’esterno c’era uno spazio per i bambini. Nonostante i timori perché dentro era buio e non sapevamo cosa avremmo trovato, facemmo più volte il giro ripetendo il messaggio. Dopo mezz’ora iniziarono ad arrivare i primi bambini e alla fine erano un centinaio. E ogni notte fino a quando lo stadio non fu svuotato erano sempre di più”.

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