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23 Mag, 23

Diffamazione, i social network non sono esenti da responsabilità

Il 22 maggio 23, Paola Avitabile su Italia Oggi Sette

Una pronuncia del Tribunale di Milano stabilisce il risarcimento se non si rimuove il post
Occhio alle diffamazoni via social. Il Tribunale civile di Milano ha di recente condannato per la prima volta in Italia un social network, Meta, gruppo statunitense che controlla Facebook e Instagram, al risarcimento danni nei confronti di Snaitech per non aver prontamente rimosso dei post «diffamatori», pubblicati nelle pagine create da un utente aventi a oggetto espressioni lesive dell’onore e reputazione della società che opera nel settore del gioco lecito e di suoi due dirigenti.

«Questo pronunciamento rappresenta una ‘prima volta assoluta’ in questo ambito e che confidiamo possa contribuire ad introdurre un principio di regolamento relativamente alla disciplina di internet e alle responsabilità di chi gestisce le piattaforme social e internet», ha commentato Gilda De Simone, Chief legal officer di Snaitech. «Ci auguriamo che questa sentenza rappresenti un benchmark per la futura gestione di questo tipo di vicende, troppo spesso rimaste indisciplinate perché ricadenti nel limbo dei social network. Il risarcimento rappresenta un precedente importante per quanto riguarda la gestione dei social in quanto fino a questo momento erano stati ritenuti responsabili delle diffamazioni solo gli utenti, mai la piattaforma». Una sentenza che sembra non sorprendere gli addetti ai lavori.

«È vero, per quanto riguarda il dispositivo, che essa condanna per la prima volta una piattaforma social per diffamazione», dice Ruben Razzante, docente di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e alla Lumsa di Roma, «Tuttavia, i precedenti giurisprudenziali già prevedevano la responsabilità dell’hosting provider per mancata rimozione di contenuti dei quali conosce la manifesta illiceità. In questo caso per Facebook è stata riscontrata una responsabilità civile omissiva per quei contenuti diffamatori, il che significa che la piattaforma rimane estranea alla originaria commissione dell’illecito e ne diventa giuridicamente responsabile se, per inerzia, evita di prolungarne le conseguenze. Come giustamente rileva il Tribunale di Milano, all’hosting provider si rimprovera una condotta commissiva mediante omissione e, quindi, di aver concorso nel comportamento lesivo altrui a consumazione permanente. Questo conferma che gli hosting provider non hanno obbligo di vigilanza preventiva sui contenuti postati dagli utenti, non possono essere chiamati a fare gli sceriffi della Rete, ma sono tenuti ad intervenire solo per interrompere la spirale di lesività connessa all’ulteriore diffusione di quei contenuti. Sarà importante verificare come in futuro i giudici si comporteranno in situazioni simili, e, in caso di condanna dell’hosting provider, come si regoleranno nella determinazione dell’entità del risarcimento in base a parametri come il numero di visualizzazioni dei contenuti diffamatori e delle interazioni concretamente verificabili».

Per Marco Bosatra di Legalitax Studio Legale e Tributario «dal punto di vista civilistico è stata riconosciuta una responsabilità non già di natura oggettiva, ma una responsabilità per fatto proprio colpevole: in virtù delle segnalazioni effettuate da Snaitech, Facebook era necessariamente a conoscenza della pubblicazione dei contenuti diffamatorie tuttavia non ha fatto alcunché per impedire la prosecuzione di tale condotta, prestando in tal modo una forma di consapevole adesione all’altrui fatto illecito. Il tema della responsabilità dell’hosting provider per gli illeciti perpetrati dagli utilizzatori del servizio (art. 16 d.lgs. n. 70/2003) è un tema che, nell’esperienza dello Studio, è spesso affrontato dalla giurisprudenza in materia di contraffazione di segni distintivi (ad es. marchio) o riproduzione non autorizzata di contenuti tutelati dalla legge sul diritto di autore (ad es. video) e, quindi, in generale, nell’ambito della violazione dei diritti di proprietà intellettuale. La responsabilità dell’hosting provider, come chiarito dalla Suprema Corte proprio in materia di violazione del diritto d’autore (Cass. n. 7708/2019), richiede tre elementi costitutivi: l’omessa rimozione dei contenuti; la manifesta illiceità dei contenuti stessi (ad es.: diffamazione, contraffazione, plagio…); la conoscenza di detta manifesta illiceità da parte dell’hosting provider. Insomma, la posizione di garanzia che l’hosting provider riveste, se da un lato non gli impone l’onere di andare a caccia di possibili illeciti, dall’altro fa sorgere l’obbligo di intervenire per rimuovere contenuti la cui manifesta illiceità gli sia nota per averne ad esempio ricevuto notizia, come accaduto nel caso di specie, dal titolare del diritto leso». L’approccio adottato dal giudice di merito si allinea a un principio di «accountability», richiamato ormai in tutte le nuove normative europee, dal Gdpr fino ai più recenti interventi in materia di servizie mercati digitali (Digital Services Act e Digital Markets Act). «Il provvedimento risulta particolarmente interessante per la qualificazione di Meta come prestatore di servizi, ai sensi del D.Lgs. n. 70/03», spiega Ivan Rotunno, practice leader Cybersecurity & data protection di Orrick Italia. «In base a questa normativa, il prestatore incorre in determinati obblighi in materia di commercio elettronico, tra cui quello di rimozione dei contenuti illeciti dalla propria pagina o sistema di informazione. Un obbligo di cancellazione che, seppure in maniera differente, ritroviamo anche nel dettato normativo del Gdpr, che impone al titolare l’eliminazione dei dati, quale diritto dell’interessato. Nello specifico l’art. 16 del decreto legislativo contempla l’esenzione dalla responsabilità solo nelle circostanze in cui, in via preliminare, il prestatore risulti non essere effettivamente a conoscenza dell’attività illecita e, una volta appresi i fatti, si attivi per la rimozione o per la disabilitazione all’accesso alle informazioni in via immediata. La disciplina impone, dunque, un obbligo di attivazionee interventoa carico del prestatore che il Tribunale meneghino nel caso di specie ha riconosciuto a Meta, rea di aver mantenuto una condotta commissiva mediante un’attività omissiva, atta a recare un danno alla società oggetto di diffamazione. In base alle statuizioni del giudice di merito, l’esercizio del diritto di critica invocato da Meta non deve essere considerato quale elemento esimente per il social network, né tanto meno non può deve essere condivisa l’eccezione per cui l’obbligo di rimozione dei post sia subordinata a un provvedimento dell’autorità giudiziaria». L’epoca attuale è figlia di un costante progresso dei mezzi di comunicazione strettamente correlati allo sviluppo di nuove tecnologie. Grazie ai social network, come Instagram, Facebook, Tik Tok, gli utenti possono essere tanto fruitori quanto creatori di contenuti multimediali a loro volta potenzialmente fruibili e condivisibili da un pubblico vastissimo.

«Una delle esigenze maggiormente sentite di questi tempi da persone e aziende è tutelare al massimo la propria reputazione, evitando che la stessa venga lesa dalla divulgazione di contenuti diffamatori», sostiene Roberta Mollica, partner di LawaL Legal and Tax Advisory, «quando l’offesa della reputazione avviene sui social network, si profila il reato di diffamazione aggravata e questo perché l’uso di tali piattaforme permette al messaggio diffamatorio di essere visualizzato e condiviso da un numero potenzialmente illimitato di utenti, causando conseguenze lesive difficilmente controllabili da chi subisce l’offesa. Per ridurre al minimo tale problema, gran parte dei social network consente agli utenti di chiedere la rimozione dei contenuti ritenuti offensivi. La rimozione in questione però nonè automaticae necessita di specifica approvazione da parte del gestore del social network, ciò anche per evitare che un simile strumento possa tramutarsi in una forma di censura mal tollerata dagli utenti stessi. Nel frattempo, i contenuti offensivi possono però raggiungere un altissimo numero di persone. Al riguardo, si evidenzia che nel caso in cui l’istanza di rimozione di un contenuto effettivamente offensivo sia negata, il gestore del social network potrebbe anche essere accusato di concorso alla diffamazione». La condotta di pubblicazione tramite social network di messaggi dal contenuto diffamatorio integra l’ipotesi delittuosa di diffamazione aggravata.

«La diffusione di post offensivi sulla bacheca di un social network», spiega Giulia Piva dello Studio Legale Orabona, «rappresenta una modalità di comunicazione di contenuti informativi suscettibile di arrecare discredito alla reputazione altrui, in quanto potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato di persone o, comunque, potenzialmente apprezzabile, e pertanto idonea ad integrare la condotta tipica sanzionata al comma terzo della fattispecie di cui all’art. 595 C.p. La stessa Cassazione ha pacificamente riconosciuto come integri il delitto di diffamazione aggravata la «pubblicazione di commenti ad hominem umilianti e ingiustificatamente aggressivi su facebook», stante l’intrinseca peculiarità della «bacheca» di un social network di rappresentare «pubblica piazza virtuale aperta al libero confronto tra gli utenti registrati» (v. Cass. Pen. Sez. V, n. 8898 del 18 gennaio 2021). Non solo. La Corte di legittimità è addirittura giunta ad affermare come costituisca condotta diffamatoria ai sensi dell’art. 595, comma terzo, C.p. la divulgazione tramite social network «di immagini fotografiche che ritraggono una persona in atteggiamenti pornografici, in un contesto e per destinatari diversi da quelli in relazione ai quali sia stato precedentemente prestato il consenso alla pubblicazione» (v. Cass. Pen. Sez. III, n. 19659 del 19 marzo 2019). Senza sottacere come, in caso di commissione del reato di diffamazione, oltre alla punibilità del singolo soggetto/autore del reato aggravato ai sensi dell’art. 595, comma terzo, C.p., risulti altresì sanzionabile la condotta dello stesso provider che trascuri di rimuovere un messaggio dal contenuto diffamatorio dalle proprie pagine social, qualora sia consapevole della sua esistenza – per aver concorso nel comportamento lesivo altrui a fronte della perpetrazione di una condotta commissiva mediante omissione».

Per Andrea Puccio, founding partner di Puccio Penalisti Associati, la recente pronuncia del Tribunale di Milano «pur emessa nell’ambito di una causa civile per risarcimento danni – ed essendosi, dunque, soffermata soloa tal fine sui profili penali della condotta del social network -, si presta, tuttavia, ad aprire la strada a ricomprendere nel perimetro del «penalmente rilevante» l’inazione della piattaforma social. Siffatta risalita della responsabilità in capo all’hosting provider dovrebbe essere subordinata – come chiarito dal Tribunale stesso – all’accertamento della consapevolezza, in capo alla piattaforma, in ordine alla diffamazione realizzata dai suoi utenti. È indubbio che la valutazione del coefficiente psicologico presenta, in concreto, profili di potenziale criticità. La consapevolezza del social network circa la commissione di illeciti penali da parte dei suoi utenti passa, nella generalità dei casi, da form di segnalazione standard: ciò è sufficiente a ritenere che il social fosse a conoscenza della condotta diffamatoria e che abbia colpevolmente omesso di impedirla? Un dato è certo: questa sentenza potrebbe essere il terreno fertile per l’elaborazione di nuove riflessioni in tema di responsabilità omissiva».

«Senza entrare nel merito degli elementi costituenti la tipicità del reato, basti ricordare come siffatta incriminazione preveda taluni aggravamenti del trattamento sanzionatorio, tra cui assume rinnovato interesse la circostanza di aver recato l’offesa «con altro mezzo di pubblicità», spiegano Antonio Carino (partner) e Aurelio Pistillo di DLA Piper. «È attorno a questo che si concentra il dibattito corrente circa le condotte lesive dell’altrui reputazione perpetrate tramite web e social media. Il sempre più smodato ricorso ad essi ha, di fatto, mutato le vesti della diffamazione tradizionalmente percepita, amplificandone le capacità offensive e chiamando gli operatori del diritto a dirimere una questione di cruciale attualità: costituisce diffamazione aggravata la pubblicazione di un post denigratorio tramite un social media? Una risposta non è tardata ad arrivare dalle fila della giurisprudenza. Si è, così, chiarito che la diffusione di messaggio calunnioso attraverso Facebook integri diffamazione aggravata dall’offesa arrecata «con altro mezzo di pubblicità». Siffatta categoria sarebbe, infatti, comprensiva di tutti i sistemi di comunicazione che, tramite l’evoluzione tecnologica, rendono possibile la trasmissione di notizie ad un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di utenti della rete, in ciò palesandosi tutta la carica aggressiva della maggior diffusività dell’offesa, che giustifica, di contro, un corrispondente inasprimento di pena». «Il Tribunale di Milano applicando l’art. 16 del dlgs. n. 70/2003 (di recepimento della Direttiva 2000/31/CE) e in conformità con la giurisprudenza di legittimità in materia (Cass. Civ., sezione I, 19 marzo 2019, n. 7708) ha configurato in capo all’hosting provider una specifica fattispecie di responsabilità civile di natura omissiva per non aver rimosso i post di carattere diffamatorio dei quali era venuto a conoscenza mediante le duplici segnalazioni da parte della società lesa», spiega Rudi Floreani, fondatore di Floreani Studio Legale. «Al riguardo, è interessante notare come la decisione si ponga in perfetta linea di continuità con i nuovi obblighi previsti in capo ai” gatekeeper” dalla normazione europea del digitale e, in particolare, dal Digital Service Act (operativo dal 17 febbraio 2024) che rivoluzionerà in modo «copernicano» la Direttiva E-commerce, introducendo regole innovative sulla responsabilità dei gestori delle grandi piattaforme in relazione ai contenuti pubblicati dai loro utenti. Il Dsa, infatti, richiederà alle grandi piattaforme digitali una maggiore responsabilizzazionee di disporre di strumenti e meccanismi preventivi ad hoc per la segnalazionee rimozione dei contenuti illegali ( Notice and Action )». La pronuncia non sorprende perché si pone nella direzione assunta dalla giurisprudenza degli ultimi anni e del Digital Services Act e testimonia la crescente rilevanza del tema della content moderation ossia della gestione e rimozione dei contenuti sulla rete.

«È il tramonto del principio della net neutrality – evocato dai colossi del web sulla base della direttiva «e-commerce» CE 2000/31», dice Daniela De Pasquale, partner di Ughi e Nunziante Studio Legale, «secondo il quale gli Internet Service Providers sono semplicemente il tramite tra gli utenti e la rete e non rispondono dei contenuti caricati dagli stessi, sino a formale e circostanziata richiesta e, in alcuni casi, sino all’intervento di una pronuncia. Chi si occupa di questa materia lo sa: non è mai stato facile ottenere la rimozione da un social media di contenuti diffamatori. La decisione si fa dunque interprete di un mutato paradigma della responsabilità degli ISP, coerente con l’evoluzione giurisprudenziale nazionale e della Ue. Quando il DSA sarà efficace le piattaforme saranno destinatarie di numerosi obblighi e incoraggiate a dotarsi di strumenti attia prevenire il caricamento di contenuti illeciti.E poi dovranno introdurre procedure snellee trasparenti per la risoluzione di controversie onde ridurre la permanenza di condotte violative dei diritti. La sentenza del Tribunale di Milano, insomma, per me è l’ultima tappa di un percorso iniziato anni fa, con la creazione della categoria dei providers del cosiddetto «hosting attivo».E poi il tema del riconoscimento di una responsabilità omissiva derivante da diffamazione online non è nuovo per Facebook. Nel 2019 il Tribunale di Roma aveva condannato Facebook al risarcimento del danno per avere ritardato – pur essendone a conoscenza- la rimozione di contenuti lesivi del diritto d’autore e dell’onore e della reputazione del danneggiato».

Per Marianna Caroccio e Francesco Conti di Grimaldi Alliance la sentenza «denota un approccio del tutto innovativo rispetto al passato, in linea con la più recente normativa europea sull’argomento: la responsabilità del gestore di servizi di hosting è stata infatti oggetto dell’attività del legislatore comunitario con l’approvazione il 5 luglio 2022 del Digital Service Package, composto dal Digital Market Act (DMA) e dal Digital Service Act (DSA). Viene affermato il principio «che ciò cheè illegale offline sia illegale anche online nell’Ue» (Ursula von der Leyen). Assolutamente coerente con questo principio risulta quanto affermato nella sentenza in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale e della sua quantificazione: il giudice di merito, applicando gli usuali criteri di risarcibilità del danno in tema di diffamazione, in realtà li supera, in funzione di un’interpretazione che dimostra di comprendere le dinamiche e le funzionalità dei c.d. social network e sancisce che in tali casi la diffamazione cagiona un danno non patrimoniale risarcibile a prescindere dal tempo di permanenza sulla pagina online e dei relativi contatti, dato il carattere di pervasività della diffusione della notizia pubblicata online, che travalica la piattaforma stessa, potendo benissimo essere immagazzinata nei vari dispositivi personali e potenzialmente riprodotta all’infinito». Un recente studio ha appurato che in media si trascorrono circa 30 anni della propria vita on line. L’uso intensivo delle piattaforme e dei social network ha causato un aumento esponenziale dei casi di diffamazione online che intasano quotidianamente i nostri tribunali.

«Le difficoltà nel disciplinare tali fattispecie si ritrovano nell’assenza di una normativa specifica e nella necessità di adattare al caso concreto le disposizioni codicistiche risalenti a quasi un secolo fa», dice Paola Avitabile di Polis Avvocati, «uno dei temi ricorrentiè quello inerente la responsabilità dei gestori dei blog ovvero dei social network nel caso di diffamazioni perpetrare da un utente a danno di un altro. Accertata la non applicabilità analogica della legge sulla stampa n. 47 del 1948, ci si domanda se chi gestisce ovvero è proprietario di una piattaforma telematica debba rispondere civilmente e penalmente dei danni causati e dei reati commessi all’interno del suddetto spazio virtuale. La giurisprudenza di merito e di legittimità, negli anni, ha elaborato il seguente principio: «Concorso in diffamazione per il blogger che resosi conto di un commento offensivo non lo rimuova tempestivamente. Una simile condotta infatti vale come «condivisione» del contenuto diffamatorio e ne consente l’ulteriore diffusione» (Cass. pen., Sez. V, 21.9.2022, n. 45680).

Anche con riferimento ai profili risarcitori, il principio vigente è il medesimo». Il regime di responsabilità dell’hosting provider per le attività illecite perpetrate nell’uso dei servizi messi a disposizione è delineato dall’art. 16 del D. lgs. 70/2003. «Il legislatore europeo e, di conseguenza, quello nazionale, come specificato dal Giudice», conclude Gianfilippo Schiaffino, partner di AMTF Avvocati, «hanno scelto di enunciare il generale principio di irresponsabilità dell’internet service provider. Ne deriva come l’hosting provider non sia, in generale, soggetto né ad un obbligo diffuso di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite presso le piattaforme che gestisce. L’obbligo di attivarsi sorge, tuttavia, nel momento successivo alla conoscenza della commissione di fatti illeciti, in quanto l’hosting provider riveste una vera e propria posizione di garanzia per cui, se per definizione lo stesso è estraneo all’originaria perpetrazione dell’illecito del destinatario del servizio, ne diviene giuridicamente responsabile dal momento in cui gli possa essere rimproverata l’inerzia nell’impedirne la protrazione. Si tratta, a ben vedere, di una forma di responsabilità civile di natura omissiva, che si configura qualora l’hosting provider ometta di rimuovere i contenuti di cui conosce la manifesta illiceità»

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