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19 Gen, 23

“Giustizia lenta, l’Italia si troverà in debito con il prestito del PNRR”. L’editoriale di Gianni Di Cagno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”

Il nostro Gianni Di Cagno è intervenuto su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 13 gennaio scorso, affrontando il tema della “giustizia lenta”.

Di seguito, l’editoriale per esteso.

Sulla «Gazzetta» di qualche giorno fa Salvatore Rossi pone il problema della lunghezza dei
tempi della Giustizia italiana rapportandoli agli impegni assunti con il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e
resilienza): in sostanza, le pendenze dovrebbero essere ridotte del 40% entro il 2026, pena la restituzione dei fondi europei. Ebbene, al posto di Rossi ci preoccuperemmo già di come farà
l’Italia a restituire quanto incassato, visto che l’obiettivo di una così drastica riduzione del contenzioso entro il 2026 è assolutamente irrealizzabile. Qualche giorno fa una mia causa civile iscritta a ruolo all’inizio del 2016 è stata rinviata per precisazione delle conclusioni al luglio 2024: se tutto
andrà bene, un semplicissimo giudizio di diffamazione, in cui non è stata compiuta alcuna istruttoria, sarà durato ben nove anni; oppure, potrei citare un giudizio di licenzia – mento trattato ai sensi della legge
Fornero (con una procedura dunque “accelerata”) ancora pendente malgrado i fatti risalgano al 2013.
Questa è la amarissima realtà, e da qui bisogna partire!

Salvatore Rossi va ringraziato per avere citato la giustizia civile, ormai dimenticata dai media, ma come tanti economisti (a partire da Ciampi) non si rende ben conto dell’effettiva portata del problema. E così si abbandona ad analisi ormai superate, quale ad esempio quella relativa all’eccessivo numero di avvocati, non considerando quanto negli ultimi anni detto numero si sia ridotto e soprattutto quanto l’attuale sistema di remunerazione dell’avvocatura incentivi un’effettiva trattazione delle cause. In realtà, l’obiettivo del Pnrr è irrealizzabile in quanto nessuna delle recenti riforme è pensata per ridurre significativamente i tempi della giustizia. E questo perché si è preferito intervenire (male) sui codici piuttosto che sulle cause profonde della crisi. La mia generazione ha pensato che il problema potesse essere affrontato a partire da una comune cultura della giurisdizione, e dunque da una comune responsabilità, che dovrebbe essere patrimonio di tutti gli attori della giustizia: magistrati, avvocati e personale amministrativo. Non ce l’abbiamo fatta, siamo stati sconfitti, ed ormai ha prevalso l’idea opposta che ogni categoria abbia diritti (spesso presunti) inalienabili, da opporre ai diritti degli “altri”.
Così, progressivamente magistrati, avvocati e cancellieri sono diventati degli estranei, nessuno conosce più le “sofferenze” del lavoro dell’altro, ognuno grida la propria alterità rispetto alla crisi della giustizia, e nell’imperante corporativismo si è smarrita l’idea stessa che la funzione del sistema debba essere quella di assicurare ai cittadini una giustizia “giusta” anche in quanto tempestiva.

Oggi non c’è soluzione. Se in appena quattro anni siamo chiamati a correggere ataviche storture, dobbiamo partire da un primo imperativo: i termini fissati per la trattazione dei procedimenti giudiziari devono essere rispettati da tutti gli operatori (magistrati, avvocati e cancellieri), e non lasciati nella disponibilità dei singoli. E invece, anche nelle recenti riforme i termini restano perentori per avvocati e cancellieri, ma ordinatori (cioè meramente teorici) per i magistrati. Ebbene, se non si corregge questo
squilibrio, non si riuscirà mai a distinguere tra problemi oggettivi che impediscono il rispetto dei termini e responsabilità personali dei diversi operatori della giustizia, e dunque sarà impossibile anche solo ipotizzare le vere necessità.

Lungi dall’occuparsi di questo problema, purtroppo, la magistratura associata sembra preoccupata solo di comunicare che i giudici italiani sono i più produttivi al mondo, mentre l’informatica viene intesa più che come una risorsa come una nuova barriera da frapporre rispetto agli avvocati, i quali ormai devono mendicare on-line non solo un incontro con un pubblico ministero, ma persino quello con un cancelliere. Dal suo canto l’avvocatura, troppo intenta a rivendicare il proprio ingresso in Costituzione (dimenticando che in Costituzione di fatto c’è già), non si accorge che intanto viene progressivamente cacciata dalle aule di giustizia. La “riforma Cartabia”, infatti, ha introdotto la possibilità che ogni udienza civile venga sostituita dalla “trattazione scritta”, un buon sistema nella fase emergenziale della pandemia, ma che in tempi normali diventa un anacronistico inno alla segretezza dei procedimenti giudiziari. Da che mondo è mondo, la pubblicità della Giustizia è stata considerata la prima garanzia di buon funzionamento della macchina giudiziaria. Solo a chi ha ormai smesso di preoccuparsi dell’opinione dei cittadini poteva venire in mente che per accelerarne i tempi biblici la Giustizia possa essere amministrata in segreto.

Questo è quel che succede quando ci si illude che le buone riforme possano prescindere dalle buone idee.

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