Il nostro Michele Laforgia interviene su La Gazzetta del Mezzogiorno per la rubrica “La bilancia e il bilancio” in merito alla riforma della giustizia.
La Gazzetta del Mezzogiorno_Laforgia_18072021
Di seguito, l’intervento per esteso.
In un celebre racconto di Friedrich Durrenmatt, un uomo in viaggio verso casa, a causa di un banale guasto meccanico, si ritrova appiedato, in un piccolo paesino svizzero. Il proprietario di una villa privata gli offre ospitalità per la notte, invitandolo a partecipare, per gioco, a un processo. Da imputato. L’uomo si schermisce, osservando che egli non ha mai commesso un reato, suscitando la meraviglia del suo ospite: scavando a fondo, un delitto si trova sempre. Durante un sontuoso banchetto gli anziani commensali, magistrati e avvocati in pensione, interpretano con entusiasmo i ruoli del giudice, del pubblico ministero e del difensore, con tanto di cancelliere. «Ci siamo liberati del peso delle formalità, delle scartoffie, dei verbali e di tutto il ciarpame dei tribunali. Noi giudichiamo senza badare alle miserie delle leggi e dei commi». La serata finisce tragicamente, perché la giustizia senza regole non è che un gioco crudele e perverso. La giustizia penale, ha scritto un grande giurista francese, è addomesticamento della violenza per il tramite del rito. Fuori dal rito, resta solo la violenza.
Dei processi, quindi, non si può fare a meno. Ed è encomiabile lo sforzo del governo di restituire «efficienza e competitività» al servizio giustizia, in linea con gli standard europei. Com’è noto, non si tratta di una libera scelta: i fondi del Pnrr sono espressamente condizionati, fra l’altro, alla «necessità di approntare riforme realmente in grado di operare una riduzione dei tempi della giustizia, che oggi continuano a registrare medie del tutto inadeguate», come si legge nelle «linee programmatiche» presentate dalla Ministra Marta Cartabia nel marzo scorso. È un obiettivo senz’altro condivisibile, che rischia tuttavia di risultare limitato e fuorviante. I processi non sono che un tassello del sistema giustizia e la loro «ragionevole durata» – che evidentemente è cosa diversa dalla brevità – solo un aspetto degli attuali disservizi. A monte, resta intatto il problema della formazione e della selezione di magistrati e avvocati, a valle l’enorme questione del sistema sanzionatorio e del carcere. La giustizia, in fondo, è fatta di persone, e la sua efficienza va valutata per i risultati che ottiene. Se si traduce in pene detentive disumane, abusi e alti tassi di recidiva, accelerarla serve a poco.
Sarebbe tuttavia ingeneroso trascurare quanto di buono c’è nella proposta del governo, al netto della persistente carenza di risorse. Certo, gli investimenti sono ancora largamente insufficienti, ma, in attesa del testo del ddl, molte delle modifiche elaborate dalla Commissione Lattanzi e fatte proprie dal governo sembrano condivisibili: dal controllo del giudice sui tempi delle indagini alla introduzione di un criterio più stringente per la selezione dei processi che meritano di approdare a dibattimento (non più la sostenibilità dell’accusa in giudizio, bensì una ragionevole previsione di condanna), sino alla introduzione generalizzata della giustizia riparativa. Assai opportuna, se non necessaria, anche l’estensione delle possibilità di ricorrere ai riti alternativi (in primis patteggiamento e abbreviato, anche condizionato all’assunzione di ulteriori prove), che costituisce, da sempre, il presupposto essenziale della funzionalità del rito accusatorio, riservando al processo pubblico in aula solo i casi davvero controversi. Nello stesso senso va inteso l’allargamento delle ipotesi di esclusione della punibilità per tenuità del fatto e di estinzione del reato a seguito di messa alla prova dell’imputato, indispensabili strumenti deflattivi in un sistema ad azione penale obbligatoria.
Non mancano alcune zone d’ombra, particolarmente con riferimento al sistema delle impugnazioni. Il governo non sembra intenzionato a porre limiti alla facoltà di appello del pubblico ministero e, soprattutto, intende privilegiare il rito cartolare, che prevede l’intervento delle parti solo su richiesta. È un errore di prospettiva, che sottende un’idea burocratica della giustizia penale. L’aumento generalizzato delle «scartoffie», come le definirebbero i protagonisti del racconto di Durrenmatt, non giova alla speditezza del processo e rischia di accentuare il deficit di credibilità del sistema. In materia penale la giustizia non può che essere pubblica, in presenza, fondata sull’oralità. La visibilità è una condizione essenziale della legittimità del potere giudiziario: non si può essere condannati alla privazione della libertà personale per corrispondenza. Peraltro, l’eccesso di carte non contribuisce affatto alla ragionevole durata del processo: si perde molto più tempo a leggere montagne di atti (e a scrivere sentenze fluviali) che non ad ascoltare le ragioni delle parti, in udienza, e decidere.
Infine, la prescrizione. Com’è noto il governo ha radicalmente rivisitato la cosiddetta riforma Bonafede, che prevedeva lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado, quale che ne fosse l’esito. Messo – finalmente – da parte il processo eterno, la proposta mantiene il limite della prescrizione del reato al solo primo grado, introducendo tuttavia termini stringenti, a pena di improcedibilità, per la celebrazione dei processi in appello (due anni) e in cassazione (un anno), salvo proroghe determinate dalla complessità o dalla gravità dei reati. Una soluzione di compromesso che, oltre a qualche dubbio sul piano dei principi, ha suscitato perplessità a causa delle notevoli diseguaglianze territoriali e dell’esigenza di smaltire il consistente arretrato. Sarebbe forse il caso, se davvero si vuole ripartire, di rimuovere il tabù dell’amnistia e dell’indulto, anche per porre urgente rimedio alla drammatica situazione carceraria. Perché, come ha ricordato il Presidente del Consiglio durante la sua recente visita a Santa Maria Capua Vetere, dove c’è abuso non c’è giustizia.